"Una volta gli uomini erano diversi da adesso. La loro vista era molto più acuta, il loro udito era finissimo e non c’era odore, timido e lieve, che potesse sfuggirgli. Anzi, a essere precisi, non c’era niente che potesse sfuggirgli: sentivano tutto. Quando le onde si frangevano contro gli scogli distinguevano con chiarezza l’urto di ogni singola gocciolina; quando i grilli frinivano assorti nelle notti d’estate seguivano senza sforzo lo strofinio delle loro zampette. Non perdevano d’occhio i germi sempre in agguato e si divertivano ad ascoltare lo zucchero sciogliersi nel caffè. Né queste loro doti si limitavano alle cose vicine: erano altrettanto a loro agio nel contare gli alberi in fondo alla valle o i rintocchi delle campane che suonavano di là dal mare. Finché, un giorno, uno di loro si rese conto che di questo passo non si combinava mai niente. C’erano troppe distrazioni, troppe cose sempre presenti; non si riusciva a seguire il filo di un discorso senza sentir echeggiare intorno tutti i discorsi che chiunque facesse. Era un pandemonio, e in quelle condizioni era impossibile lavorare.
Messi di fronte a questa rivelazione, anche gli altri furono colpiti e decisero di fare qualcosa. Inforcarono tutti un paio di occhiali scuri, si misero della cera nelle orecchie e si tapparono il naso con una pinza della biancheria. Quando finalmente si tolsero pinza, cera e occhiali erano più o meno ciechi e sordi come adesso, ma intorno non c’era più la confusione di un tempo. Talvolta sembrava perfino che ci fosse silenzio."
da La filosofia in trentadue favole di Ermanno Bencivenga