«Hey Mister Lennon, sta per entrare nella storia».
Mark Chapman, 25 anni, diceva di essere, un fan. Poche ore prima, al portone del tetro Dakota Building, affacciato su West Central Park, a New York, s’era fatto autografare una copia dell’ultimo album dal suo idolo che stava uscendo per andare in sala di registrazione.
Lo ha atteso al rientro, gli ha sparato alle spalle, annunciandogli la fine con quella frase.
Era l’8 dicembre del 1980. La morte di John Lennon, così insensata e insieme così simbolica, segnò la fine dell’innocenza per un’intera generazione.
E quanto alla storia, Lennon c’era già, con i suoi quarant’anni quasi tutti trascorsi, fin da ragazzino, a suonare, cantare e scrivere canzoni, alcune delle quali diventate immortali. E con il suo impegno, spesso discutibile ma sempre coerente, per i diritti civili, per la pace, per quello che ai suoi tempi anche da noi sarebbe stato definito «un mondo migliore».
Chapman invece, un posto nella storia l’ha conquistato grazie alla sua follia.